La dicotomia paziente-cliente nelle professioni sanitarie
La scelta di una parola per nominare qualcosa è più di un semplice esercizio semantico. Le parole funzionano come metafore che modellano letteralmente la nostra realtà e le nostre aspettative. Le parole che scegliamo di usare riflettono i valori, gli attributi e le qualità che attribuiamo a ciò che nominiamo. Se ciò che stiamo nominando è l’oggetto delle nostre azioni di professionisti della salute, ciò potrà avere implicazioni nell’ambito della nostra condotta professionale.
Come dovremmo chiamare allora gli individui che sono al centro del nostro lavoro come psicologi e, più in generale, come professionisti sanitari? Nell’ambito delle professioni sanitarie, l’attuale dicotomia prevalente è tra i termini paziente e cliente.
La parola paziente ha la sua origine nel latino ‘pati’ (subire, soffrire o sopportare) e trasmette, quindi, un’implicazione di malattia e di disturbo rispetto alla “normalità” riconosciuta. Implica altresì una passività che rimuove la responsabilità e che può essere interpretata come stigmatizzante in quanto il suo utilizzo può aumentare la percezione di disabilità e menomazione.
Queste implicazioni nel costrutto di ‘paziente’ svalutano l’autonomia intrinseca dell’individuo a cui viene applicata l’etichetta. È quindi più adatto per l’uso all’interno di un modello paternalistico di relazioni sanitarie incentrato sul riconoscimento acuto della malattia e della sua gestione. È un termine meno appropriato per riferirsi a un individuo sano, impegnato in attività legate alla prevenzione delle malattie o al mantenimento della salute.
L’utilizzo della parola cliente per indicare un beneficiario di assistenza sanitaria ha la sua origine nell’approccio umanistico alla consulenza psicologica di Carl Rogers (ovvero la Client Centered Therapy). La parola è stata specificatamente scelta per evitare una connotazione di malattia. Ampiamente utilizzato in ambito psicologico, il termine cliente è stato successivamente utilizzato anche nelle altre professioni sanitarie.
Rogers utilizzò il termine cliente perché lo considerava più adeguato a veicolare il suo concetto di soggetto attivo e responsabile del processo di cambiamento, rispetto a quello di paziente che sottolineava invece il ruolo di chi, passivamente, si affida ad un esperto e demanda interamente a lui la conduzione della terapia.
L’uso della parola cliente per connotare un destinatario di assistenza sanitaria è emerso, non a caso, in un’epoca che ha sempre più concettualizzato i servizi sanitari come una merce e nella quale i termini di riferimento originariamente espressi per affari e commercio sono stati estesi alla pratica di sanitaria stessa. In effetti Rogers, che ha fatto tanto per rendere popolare la parola “cliente” nell’ambiente sanitario, ne ha anche compreso i limiti intrinseci, affermando che il termine cliente ha alcune connotazioni che sono infelici e che sarebbe stato ben lieto di usare un termine migliore, qualora fosse riuscito ad individuarlo.
Esistono prove oggettive limitate riguardo all’uso ed al gradimento dei termini “paziente” e “cliente” nell’ambiente sanitario. Più recentemente, nell’ultimo decennio, numerosi studi hanno esaminato i beneficiari di assistenza sanitaria in una varietà di contesti ed è stata solitamente dimostrata una preferenza per la terminologia “paziente” rispetto a “cliente”, con alcune eccezioni.
Da quanto detto sopra, è chiaro che né “paziente” né “cliente” sono termini del tutto soddisfacenti, e ciò è forse anche inevitabile, data l’enorme eterogeneità dell’offerta sanitaria a vari livelli
Forse a livello individuale la corretta attribuzione potrebbe essere stabilità facendo riferimento ad un comportamento sociale appropriato. Quando incontriamo qualcuno, inevitabilmente, possiamo accertare facilmente come desidera essere chiamato e di attraverso l’uso del termine opportuno, possiamo confermare la sua scelta. In questo caso, quindi. la cosa adeguata da fare è proprio quella che meglio favorisce l’autodeterminazione. Nel caso di incontro individuale, ciò significherebbe capire quale auto-etichetta (cioè paziente o cliente) l’individuo che riceve l’assistenza sanitaria preferisce.
Mentre questo può funzionare a livello individuale, non ci aiuta quando cerchiamo di etichettare una ‘classe’ di individui. L’autonomia individuale è il valore morale dominante della moderna società occidentale ed entrambi i termini, ‘paziente’ e ‘cliente’, mitigano in una certa misura tale autonomia.
Come dovremmo chiamare allora gli individui che sono al centro del nostro lavoro come professionisti della salute? Cosa c’è di sbagliato nell’utilizzo di termini quali ‘persone’, ‘individui’, ‘esseri umani’, ‘adulti’, ‘bambini’, ‘uomini’, ‘donne’? Non è quello che veramente sono stati, sono e saranno sempre?
Riassumendo
Come dovremmo chiamare gli individui che sono al centro del nostro lavoro come Psicologi? Nell’ambito delle professioni sanitarie, l’attuale dicotomia prevalente è tra i termini paziente e cliente.
- Riferimenti
- Shevell, M.I. (2009), What do we call ‘them’? , The ‘patient’ versus ‘client’ dichotomy, Dev. Med. Child Neurol. 2009, 51, 770–772.